san giuseppe

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Mio papà quest’anno passerà una festa del papà un po’ diversa, nel senso che temo si renderà parzialmente conto della festa, di chi lo vuole festeggiare, del posto in cui gli verranno fatti gli auguri. Questo a seconda delle condizioni in cui si troverà il 19 marzo prossimo, cosa girerà nella sua testa, se sarà in un momento di lucidità o se sarà attraversato da un banco di nebbia, quello che gli impedisce di raggiungere la sala di controllo e attivare la memoria. Che poi non si renda conto della festa che lo riguarda non è una cosa grave, non è che badiamo molto a celebrare l’ordinarietà e la straordinarietà, è la solita questione che un popolo dovrebbe essere donna, mamma, papà, innamorato o credente o partigiano ogni giorno dell’anno. Ma, tornando a mio padre, è chiaramente un dramma per chi gli vive vicino assistere ai suoi modi di assentarsi. Voler tornare a casa quando in casa ci si trova già, la moglie che diventa la zia materna, la vita domestica che si tramuta d’improvviso in una scena di ordinaria contabilità da seguire in ufficio. Che poi avendo negli ultimi anni circoscritto la sua modalità relazionale allo scherzo e alla battuta, per compensare un malessere che non sto qui a raccontarvi, è ancora più sconcertante perché in quei momenti sembra che ti stia prendendo per il naso. Poi capisci che è un forte segnale di senilità e che il fatto che gli scappi da ridere quando cerchi di riportarlo indietro è doppiamente amaro. Così niente, scrivo questa piccola raccomandazione con qualche giorno di anticipo, una raccomandazione a me stesso di attendere con pazienza il prossimo 19 marzo e trovare l’istante esatto, quello con la luce giusta negli occhi, i suoi occhi, per fargli gli auguri.

modestamente

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Nel settore in cui lavoro uno dei paradigmi è il “sì, sempre, subito” con cui ci si relaziona ai clienti, il che può anche risultare una strategia vincente. A rendersi disponibili con continuità sicuramente ci si guadagna la cieca fiducia di chi commissiona i lavori, che avrà la certezza di contare incondizionatamente su di voi, e su questo siamo d’accordo. Il problema è il subito. Lavorare di fretta è una condizione piuttosto normale nel mio ambiente, è la prima cosa a cui devi essere disposto quando vieni ingaggiato e te lo chiedono persino ai colloqui. La capacità di resistenza allo stress, che bene o male coincide proprio con l’attitudine a questi ritmi, vale più di qualsiasi skill, e lo stress consiste proprio nella predisposizione a gestire progetti con consegna dall’oggi al domani, dalla mattina alla sera stessa, da un’ora all’altra. Che non è una questione di fatica fisica, perché non è che ci venga richiesto di trasportare a mano centinaia di sacchi di cemento su per cinque piani di scale a tempo record.

Le lavorazioni svolte in un pomeriggio anziché in un paio di giorni, quello che si considera il tempo sufficientemente adeguato per trovare con la dovuta concentrazione la forma più adatta, scriverla, rileggerla a freddo almeno ventiquattr’ore dopo con la possibilità di apportare qualche modifica per limare i passaggi meno fluidi, mostrano comunque i loro limiti. Può succedere che lo standard si abbassi e i risultati, anche se si raggiungono, siano di qualità inferiore a causa della mediocrità o, peggio, della banalità del prodotto, come una maglia di lana che costa poco e che alla terza volta in cui la indossi si riempie di pallini e si sforma. Certo, può capitare che l’illuminazione ti giunga all’improvviso e questo improvviso sia qualche minuto dopo l’inizio dei lavori. Ma anche no. Ma sempre più mi si fa notare che questo tassello della filiera produttiva ha impatto pari a zero sul progetto complessivo, sia che si tratti di una figata o no. Qui non siamo l’Armando Testa, sento dire, e guardandomi intorno ci se ne rende conto. Ma se alla fine non cambia nulla, non c’è nessun valore aggiunto, nessuna ricaduta sull’economia, allora tanto vale fare le cose con più calma, almeno così mi risparmio l’esaurimento nervoso.

la dura legge del pop

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Aiutatemi a sciogliere un dubbio: ma nella vita bisogna fare come i Police o come gli U2? Mi spiego meglio. All’apice della loro maturità artistica i Police hanno cambiato tutto, nel senso che, come sapete, non è che si sono sciolti, è che Sting è fuoriuscito per soddisfare le sue esigenze solistiche e poppettare quindi i Police hanno chiuso. Non sono esperto di calcio, ma è un po’ come una squadra con un ottimo allenatore e giocatori formidabili che, anno dopo anno, mette a segno successi a ripetizione. Scudetti, coppe, trofei vari. Quindi l’allenatore se ne va, o la società vende l’attaccante che con le sue realizzazioni ha portato in vetta la squadra, come se vincere troppo alla fine annoiasse i vincitori. Poi è successo che a Sting non è che sia andata male, anzi, ma il suo bisogno di autonomia e di pop è stato vissuto dai fans come un tradimento. Voglio dire, che bisogno c’è di cambiare quando le cose vanno bene? Ma vediamo come può essere da un punto di vista opposto. Gli U2 sono insieme da più di trent’anni, mi entusiasmavano agli esordi, considero Unforgettable Fire un capolavoro, ma dopo quello hanno iniziato ad annoiarmi. Ora, io non faccio testo, perché è proprio dal disco successivo che è cominiciato il loro successo mondiale. Gli U2 sono rimasti sempre uniti proprio per reiterare a ogni nuova uscita quel consenso di pubblico. La loro forza è in parte dovuta anche dalla loro unione, credo, il pubblico premia con una fedeltà senza precedenti l’idea di coesione che lasciano percepire dall’esterno. Ma è indubbio che siamo in molti a pensare “oh no, ancora loro” ogni volta che, a così tanti anni di distanza, esce un disco nuovo. Sempre uguali, Bono sempre la punta, The Edge sempre il gregario, gli altri due la stessa perfetta retroguardia ritmica. Chissà se le cose belle e intense è bene farle durare poco, e chissà cosa spinge chi raggiunge un massimo a provare a fare qualcosa di più, a rompere volontariamente equilibri perfetti, sapendo che le cose da quel momento in poi non solo non saranno più come prima, ma molto probabilmente peggioreranno.

una delle cime più alte dell’Islanda

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Ma a voi non vi irritano alcune scelte nelle canzoni, per esempio suoni che non ci azzeccano e che vi rovinano l’atmosfera, o la batteria che non entra mai e non fa decollare il pezzo oppure entra a sproposito e lo appiattisce, o ancora strutture discutibili con parti asimmetriche che sbilanciano l’ascolto, o simmetriche che invece gli danno la forma del cremino, uno strato in un modo poi quello in un altro poi torna il primo strato eccetera eccetera? Si tratta di una percezione totalmente soggettiva, lo ammetto, e anche piuttosto nerd. Ma ci sono casi che mi urtano perché riguardano brani a cui sono molto legato e che ascolto sempre con enorme piacere, ma poi arrivo in quel punto in cui avrei fatto diversamente e mi rammarico del fatto che il gruppo non mi abbia consultato, in fase di produzione, per sfruttare il mio fiuto in ambito musicale. E che fiuto, direte voi.

Prendete “Svefn G Englar” dei Sigur Ros, per esempio, un brano la cui fruizione è fortemente condizionata dall’attesa del cambio che, nel video qui sotto, trovate a 6:15 circa, un’apertura che ogni volta mi ribalta ma che dura pochissimo, il tempo di un solo giro di accordi, e che mi lascia quella sensazione di inappagamento perché vorrei che si ripetesse almeno altre sette volte a completare una voglia che definirei di geometria emotiva e completezza armonica. Ma l’unicità di quel frammento, direte voi, è proprio il bello del pezzo, un climax che si erge per pochi secondi proprio per farci beare di tutto il resto. Per lasciarci ammirare una vetta da lontano, che si scala e si scende solo per la vertigine dell’altezza. Sarà davvero così?

stesso posto, stessa ora

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Non so se vi ricordate questa storia, si tratta di un post che ho scritto poco più di un anno fa, anzi dubito che vi ricordiate perché a quei tempi sono certo che pochi di voi mi seguivano. Ma non è ancora il tempo di “oldies but goldies”, semplicemente volevo aggiornarvi sugli sviluppi della vicenda in questione perché in quel brano il sottoscritto e l’amico che mi aveva messo al corrente della sua esperienza da cui avevo avuto l’ispirazione eravamo stati piuttosto pessimisti sul fatto che la protagonista potesse prima o poi essere dotata delle chiavi dell’ufficio in modo da non dover aspettare a lungo qualcuno in grado di farla entrare. Non solo. I miei dubbi, visti i tempi che correvano e che nel frattempo sono a dir poco peggiorati, erano pure sul fatto che la giovane ma-mica-tanto indie-girl potesse sopravvivere più di qualche mese nella giungla di contratti farlocchi di cui il mio fumoso settore si nutre. Ma vi meraviglierà sapere che ora E., la suddetta giovane ma-mica-tanto indie-girl non trascorre più il tempo in attesa dei suoi colleghi dotati di chiavi leggendo libri nell’androne dell’ufficio, o meglio è quasi sempre lì, mi aggiorna S., a partire dalle 8.45 circa, ma ora si è dotata di un Kindle e legge libri in formato elettronico. Qualche soldino l’ha guadagnato e investito. E il fatto che comunque sia ancora lì, accovacciata sul muretto sopra il calorifero ogni mattina in attesa dei suoi responsabili, significa che il posto nell’agenzia molto gheddaun e hipster è ancora suo. L’anno è passato e il contratto rinnovato. C’è vita là sotto, beati loro.

a denti stretti

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La cosa che ti invidio di più non è tanto l’età, insomma da lì ci sono già passato e sebbene avere trentasette anni in meno non mi dispiacerebbe ti dirò che sono piuttosto soddisfatto di tutto, compreso l’essere nato quando sono nato. Quello che ti invidio di più sono le risate che ti fai, probabilmente è tipico dell’infanzia sbellicarsi come fai tu, ridere fino a farsi mancare il fiato, perdere il controllo a tal punto da farsela addosso. Ora, effetti collaterali a parte, ogni volta che succede, per esempio quando ti sgrido al contrario, come lo chiamiamo noi, tipo “Smetti subito di fare i compiti e fila a giocare al DS”, oppure “Basta, finché non è mezzanotte non voglio che ti sposti da quella tv, hai capito?”. O quando abbiniamo il volume dei versi agli animali in modo indirettamente proporzionale alla mole, un altro gioco di paradossi, per esempio il pulcino appena nato che fa PIOOOOOOO con un timbro da Sepultura, o il dobermann inferocito che prima di azzannare la sua preda la spaventa con un bau sommesso.

Ecco, ogni volta in cui ti vedo sbellicarti dalle risate penso a quanto tempo è che non mi viene da ridere così. Ci sono cose che mi fanno sorridere, film che mi divertono, leggo libri che mi mettono di buon umore, ma la risata che mi suscitano dura poco. Purtroppo lo sfogo che l’esplosione di ilarità consente non ha eguali, un orgasmo incontrollabile che fa perdere la ragione, fa venire le lacrime agli occhi e il mal di pancia. E dopo ci si ritrova ad asciugarsi gli occhi e a qualche strascico, e tutti ti guardano stupiti del modo con cui ti sei lasciato coinvolgere.

Mi piacerebbe davvero ridere con te e proprio come fai tu, e forse le cose che fanno ridere veramente sono solo quelle pensate per i bambini, le barzellette con il tedesco, il francese e l’italiano e i nomi esotici di ministri e tuffatori, i vari fur-gon-cin e sesokimaspinto. La satira, l’ironia, il sarcasmo, tutte forme sublimi di umorismo intelligente, le cose da adulti, in pratica, non fanno più per me. O ancora peggio i comici che fanno i simpatici parlando di figa e di calcio e quelli da show in tv. Vedrai, quando sarai grande, non ci sarà proprio più niente da ridere.

il pianoforte sulla spalla?

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Sono poche le canzoni in grado di farmi saltare i nervi. Be’ oddio nemmeno così poche, se non altro perché alcuni brani compresi in questo elenco personale si ascoltano raramente, ormai si può dire che sono finiti nel dimenticatoio condannati da un più che giustificato oscurantismo culturale. Roba tipo “Uomini soli” dei Pooh, un medley dei Gipsy Kings che ha rischiato di rovinarmi la crescita intorno ai vent’anni e l’intera discografia di Gianna Nannini, il cui timbro di voce su di me ha più o meno lo stesso effetto di una forchetta contro i denti, e solo per l’amore che provo per mia figlia ho depennato da questa black list “Aria”, ma solo perché presente nella colonna sonora di “Momo alla conquista del tempo”, uno dei suoi film a disegni animati preferiti.

Ma c’è una canzone in grado di farmi saltare i nervi che sono costretto ad ascoltare ogni lunedì e giovedì, perché fa parte della compilation che la mia trainer di attività motoria globale utilizza come accompagnamento dei diversi momenti della seduta di allenamento. Verso la fine, quando lo stretching subentra alle fatiche dell’esercizio fisico, tra una Enya e un altro brano altrettanto dozzinale da benessere da supermercato, ecco la voce in beffardo accento romanesco di un noto cantautore di cui ho già avuto il piacere di parlare su queste pagine. Il pianoforte e le sue vocali allungateeeeeeee, che già il pezzo non lo sopportavo quando fu pubblicato, poi ha dato il titolo a un noto filmetto di quel cinema italiano che andava per la maggiore tra i trentenni di qualche anno fa, e ora mi tocca subire mentre cerco di restituire tono ai muscoli del mio corpo fiaccati da intere stagioni passate chino al pc. Ma per il perfetto connubio con il “corpore sano” la “mens sana” dovrebbe poter non esser messa alla prova. Ogni volta penso di chiedere una tregua, magari potrei proporre qualcosa di alternativo, poi su “si accendono le luci qui sul palco ma quanti amici intorno che mi viene voglia di cantare” a me invece viene voglia di alzarmi e andarmene. E non è il caso di linkare qui il video di “Notte prima degli esami”, portatevelo tu e i tuoi amici il pianoforte sulla spalla. Se l’amore è amoreeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee…

e nella cattiva sorte

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Gli avevano detto che è uno dei momenti più belli e, come ci si augura per tutti, era alla sua prima esperienza anche se al giorno oggi quando succede più di una volta non è una tragedia, anzi fare il bis è piuttosto comune, diciamo che è alla terza che comincia a diventare patologico. Gli era poi capitato di vedere numerosi reportage fotografici di questo tipo di eventi perché era già avanti con gli anni quando aveva deciso per il grande passo, era più grande di me e molti degli amici con cui era cresciuto si erano già sistemati, per così dire. E si era preoccupato del fatto che negli album di matrimonio, solitamente curati dalla componente femminile della coppia, componente non necessariamente coincidente con la moglie in sé, gli sposi sorridevano sempre. La donna generalmente aveva la facoltà di sciogliersi in commozione, di abbracciare i genitori e le amiche del cuore, ma nel resto degli scatti ostentava arcate dentarie perfette. Il marito nella foto standard rispondeva a tanta immacolatezza orale trafiggendo l’amata con sguardi dritti al cuore e a tutto il resto del corpo per poi librarsi lontano all’infinito di una vita per sempre in due con l’immancabile sorriso sulle labbra.

Lui non è che non fosse convinto di prendere in moglie la sua futura moglie, ma era uno di quei tipi che non si entusiasmano più di tanto, tendente al noioso. Non so se ho reso l’idea. Per di più si imbarazzava di fronte alle fotocamere, non sapeva mai come stare e come mettersi così finiva sempre con l’assumere espressioni innaturali venendo malissimo. Ma gli spiaceva dare l’idea di essere stato coinvolto suo malgrado in un progetto di vita non condiviso, le nozze sarebbero state anche la sua festa. Così chiese un consiglio agli amici, e il suggerimento avuto in cambio fu di sorridere sempre, non mollare mai l’espressione di felicità nemmeno un attimo, nemmeno di fronte al sindaco. Ma io non so sorridere per finta, provò a schermirsi il promesso sposo, al massimo riesco a sfoggiare un sorrisetto a metà. Un ghigno. Ma no, lo rassicurarono i fidati consiglieri, tira bene ai lati le labbra e resta fermo. Ecco. Così.

La cerimonia si tenne senza il minimo intoppo, la sposa pianse a lungo con mamma, papà e damigelle, e lo sposo restò immortalato in tutte le foto con la stessa identica espressione: al taglio della torta, durante il ballo, con gli amici di lei e i parenti lontani venuti apposta dalla Francia. Una mascella quadrata con un varco serrato da trentadue denti, per sua fortuna sani e dritti, campeggia in ognuno di quei ritratti. Tanto che, ogni volta in cui gli capita di soffermarcisi, ne aveva una in bella mostra anche sulla scrivania del suo ufficio da amministratore delegato prima di chiedere il divorzio, gli viene da sorridere. Ci prova, gli fa persino un po’ male la mandibola dallo sforzo, ma non c’è mai più riuscito.

casa e chiesa

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Il dibattito interno si sviluppa a margine di una fase conoscitiva, una sperimentazione, un bambina che vuole provare l’esperienza della messa. Sì, proprio quella, la messa della domenica. Malgrado il clima devaticanizzato che si respira in famiglia c’è qualcosa che stimola la sua curiosità, sarà il profumo dell’incenso o sarà il fatto che si tratta di una manifestazione di massa, l’attrattiva del rito corale che ha un forte ascendente sui nostri figli. Non si spiegherebbero i balli di gruppo, ripetere preghiere all’unisono e seguire i gesti di un officiante più o meno è la stessa cosa dell’animazione al campeggio. Che poi sono gli stessi aspetti che invece a me rendevano invisa la funzione e le riunioni in oratorio, muoversi tutti uguali mi fa sentire un po’ ridicolo e non perché voglia distinguermi a tutti i costi, è proprio l’estetica della manifestazione di insieme che mi provoca un disagio, il che vale tanto per gli slogan ai cortei quanto nei canti da gita in pullman. Ma tornando al casus belli, oggettivamente non è un problema avvicinarsi all’ambiente dell’oratorio, dalle mie parti non ci sono molte alternative e tra i tamarri che passano il tempo al parchetto a sputare per terra e fare i bulli preferisco l’impegno tra i fedeli. Anzi, la mia pianificazione prevede addirittura l’ingresso negli scout dell’Agesci. La stessa squadra di pallavolo in cui milita mia figlia fa parte di quel complesso parrocchiale. E una mozione interna alla discussione fa emergere il fatto che se da sempre si fosse perseguita quella scelta molte complessità si sarebbero semplificate naturalmente, è molto più comodo per i grandi fornire risposte alle domande esistenziali dei bambini con il filtro della fede piuttosto che lasciarli in pasto all’agnosticismo e al razionalismo fin da piccoli. Conoscere i nomi dei posti da cui si proviene e dove ci si ritroverà dopo consente una certezza di fondo rispetto alla nozione di nulla e di vuoto, di certo la visione escatologica è più elementare. E sappiamo tutti l’importanza del racconto fantastico e della fiaba a quell’età, no? Nel frattempo prendiamo tempo e vediamo se la richiesta si ripeterà anche domenica prossima, e anzi c’è qualche notaio in sala che sa come si fa a diseredare un figlio?

si prega di fare silenzio

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La voce nella testa che legge i libri è l’unica in grado di sovrastare il coro greco che si muove lungo il proscenio interiore, chiamiamolo così, e che ci ricorda incombenze e dispiaceri, se non altro perché le storie della narrativa sono di gran lunga più interessanti delle proprie e non è difficile perdercisi dietro. Beh, a pensarci bene, non tutte. Nel senso che non tutti i libri riescono bene, ma malgrado ciò succede che a volte si prende il volo da una frase e mentre gli occhi scorrono le righe una dopo l’altra, la trama del romanzo confluisce nella maggiore preoccupazione che si sta vivendo e ci si ritrova alla pagina dopo senza ricordare nulla, confusi dell’improvviso colpo di scena o della comparsa di un personaggio nuovo. Quando si perde l’orientamento è perché qualcosa dentro di noi ci ha distratto, meglio seguire il percorso a ritroso e cercare l’ultimo punto che ci si ricorda di aver attraversato, prima del buio. Ma a parte questi incidenti di percorso, è facile che il libro e la testa funzionino un po’ come vasi comunicanti. Se la storia ha una sua gravità c’è un principio, che non ho scoperto io eh, secondo cui il contenuto più o meno fluido passa dall’altra parte che generalmente è molto più vuota e la riempie fino a far coincidere i due livelli, quello del libro e quello della testa. Se la storia poi ci prende, si adatta perfettamente alla forma del nuovo contenitore proprio come il liquido con cui si fa l’esperimento nei laboratori delle scuole medie. Non fidatevi di chi preferisce tenere il proprio cervello a secco, quindi. Lì dentro le voci interiori rimbombano, c’è un’acustica pessima come in una piscina vuota ed è facile spaccarsi i timpani con i larsen.