ecco perché è bene scegliere il posto giusto in treno

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“Questo capitolo è completamente dedicato alle performance sui mezzi pubblici a media e lunga percorrenza dove è possibile sfruttare tutti i vantaggi dell’intimità di uno spazio ridotto. La prossimità dei viaggiatori, lo stesso contatto fisico consentito dalle parti comuni dei sedili attigui e la familiarità con cui la disposizione frontale induce al dialogo sono fattori estremamente favorevoli alla persuasione e alla vendita. Esistono spazi o compartimenti da quattro e sei posti sulle carrozze ferroviarie, in entrambi i casi è preferibile agire con la formazione a tre (venditore, spalla, finto cliente). Muoversi in due rende l’abilità commerciale ancora più decisiva, anche se aumentano le opportunità di vendita su più persone. Il finto cliente rivolge le domande al venditore – si presume che i tre performer facciano finta di non conoscersi – dopo essersi dimostrato incuriosito dalla brochure prodotto che il venditore sta leggendo. Il ruolo della spalla è dapprima di motivato scetticismo – può anche manifestare la volontà di far desistere il finto al cliente all’acquisto – ma pronto a ravvedersi grazie alle risposte che il venditore fornisce al finto cliente. La spalla è fondamentale perché è suo il tentativo di coinvolgimento dei passeggeri nella discussione, in modo da incuriosire i veri potenziali clienti. La performance sarà ancora più credibile se i tre componenti del team commerciale avvisano di essere arrivati alle loro destinazioni in tempi differenti. Tuttavia la spalla e il finto cliente che scoprono di vivere a pochi isolati e sia avviano insieme alla discesa rafforza il senso di fiducia degli astanti sulle loro opinioni circa il prodotto e consente al venditore, rimasto solo, di concludere più facilmente anche solo raccogliendo la possibilità di una dimostrazione diretta”.
AAVV, “Manuale di situazionismo applicato alle tecniche di vendita”, pag 35

quando non centri per l’impiego

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A volte lavorare significa presidiare un posto, a volte controllare altri, fare disegni, parlare di cose che non si conoscono a persone che tanto è uguale, mettere i dischi, recuperare alpinisti in difficoltà, dare in affidamento animali abbandonati, dare in affidamento esseri umani ritrovati. Lavorare è anche quando offri possibilità, chiudi porte e finestre, le apri per cambiare l’aria in appartamenti che non sono il tuo, riaccompagni a casa bambini in lacrime, decidi chi fa cosa, consegni progetti, controlli cantieri, impari lingue nuove perché il mercato è cambiato, ti scordi come si scrive tanto poco ti serve. Ma lavorare è anche provare brani di Strauss fino allo stremo per eseguirli a capodanno, fischiare un’invasione in una finale di pallavolo che non c’era, ascoltare tabelline all’infinito, guidare da remoto pattuglie di volo acrobatico, riparare cestelli della lavatrice, trovare i refusi nei libri, pulire di notte i resti negli stabilimenti in cui si fanno prodotti alimentari con la carne. Il filosofo, ecco io vorrei tanto fare il filosofo anche se non so sinceramente da dove si inizi e cosa fa, un filosofo praticamente, tenendo conto che è tutta teoria. O uno di quei mestieri di cui parlano tutti ma non si sa esattamente chi li faccia: chi sta nella stanza dei bottoni, chi mette in pratica strategie di cambiamenti climatici controllati attraverso l’emissione di scie chimiche, un componente chiave del Bildelberg, Elena Ferrante, la mente di una qualsiasi società segreta, il capo della mafia, il gufo che trama contro il governo, il regista della CIA che ha architettato l’11 settembre. Ci sono quindi persone che consegnano e ritirano libri dati in prestito e altre che comprano e vendono qualunque cosa. Il commercio, che passione. Ma vogliamo parlare di chi munge gli animali da latte? E chi coordina l’inseminazione di quelli da allevamento? E i poliziotti? E quelli che vivono sulle piattaforme petrolifere? Non so se esista, sarebbe bello però consultare un annuario delle professioni, tutti i mestieri dalla A alla Z, un’enciclopedia che non sono sicuro che potrebbe risolvere il problema della disoccupazione illustrando a chi non ha un lavoro tutte le possibilità e le combinazioni di attitudine, competenze e iniziativa che esistono al mondo. Di certo troverebbe estimatori come il sottoscritto, gente che passerebbe ore a cercare che cosa fa, altra gente, per vivere.

fenomenologia del pilota automatico

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Ogni giorno milioni di persone al mondo possono svegliarsi e apprestarsi a vivere la loro giornata in modo completamente deresponsabilizzato grazie all’impegno di un numero altrettanto enorme di individui che prendono in mano anche la loro di situazione. Su questi eroi comuni a cui nessuno intitola vie o dedica premi internazionali a meno che la quantità di gente di competenza non sia davvero da record e il risultato delle loro gesta non sia epico si è comunque detto tutto. Sull’altra categoria nessuno si pronuncia mai più di tanto probabilmente perché costituisce la maggioranza ed è un peccato perché ci sono alcuni spunti sulle attitudini di questi utenti passivi della vita che sono meritevoli di approfondimento. Lasciate perdere per un attimo gli aspetti negativi di quest’accezione, a partire dall’assenza del rischio in prima persona o cose più ordinarie come l’annosa dicotomia tra lavoratori dipendenti e imprenditori. Io mi riferivo più al fascino e all’ebbrezza del disorientamento quando si è condotti da altri sia in senso proprio che in senso lato e traslato. In una coppia, in un nucleo ma anche in un gruppo e in una microsocietà la conseguenza di una scelta delegata può essere piacevole, si possono chiudere gli occhi o anche tenerli aperti se c’è qualcosa da vedere e poi lasciarsi condurre. Il senso è più quello del bambino in braccio rispetto a quello del cane al guinzaglio. Visiti una città e puoi permetterti il lusso di non sapere dove ti trovi tanto c’è qualcuno che ha il polso della situazione. O in senso più ampio certe persone che non prendono la patente tanto ce l’ha già il partner. Ecco, ogni tanto possiamo fare finta che il panico che ci prende quando siamo soli – se siamo abituati a comportarci così – non esista e goderci il tepore e l’oblio che un veicolo esperienziale automatico è in grado di dare. A volte poi non è nemmeno il caso di fare un po’ per uno, nel senso che ci sono caratteri che esigono sempre le redini, il volante, la scelta. Non so quale sia la vostra opinione, oggi però ho voglia di sdraiarmi qui e di farmi trasportare, se vedete un ostacolo o un pericolo qualunque fatemi un fischio.

meglio lo sport dal vivo o un concerto rock?

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Una folla di ultras esaltati dalle gesta vincenti della propria squadra del cuore e assiepata sugli spalti di un palasport di provincia è capace di tutto, a partire dal rendere in tonalità maggiore un pezzo epico come la sigla di “Giochi senza frontiere” che, nella versione originale, se fosse per me sarebbe un inno nazionale tanto è ricco di pathos. Molto più del nostro ma mai come l’inarrivabile Marsigliese, per intenderci. Invece nella veste di coro ad incitamento della squadra di volley del Novara che ha vinto ieri sera la terza gara della finale del campionato, unito a parole piuttosto banali e, soprattutto, con quella variazione melodica che non riesco a capire se sia voluta o meno – vagli a spiegare la differenza di corde emotive che i modi in musica vanno a toccare – sembra una marcetta da banda di strada. Vorrei andare in mezzo a loro, zittire per un attimo quei megafoni usati a sproposito e fargli capire che non è la stessa cosa e che per il fine che volevano raggiungere non va assolutamente bene. Non si incita un team in questo modo. Ma cosa si può pretendere se viviamo in una società in cui il risultato dell’approssimativa educazione musicale è che la maggior parte della gente non è nemmeno in grado di tenere per più di due battute un tempo elementare come “We will rock you”. Senza contare che, oltre a questo, le gradinate gremite da tifosi dell’una e dell’altra squadra mi hanno insegnato molte cose ed è per questo che sono certo che la prossima stagione ripeterò l’esperienza delle partite di volley femminile dal vivo più spesso. E non mi riferisco solo ad aspetti che sappiamo tutti, e cioè che è uno sport minore, quindi puro e fatto da atlete che non hanno certo gli stipendi dei calciatori eccetera eccetera. Intanto la gente che è lì a seguire il gioco esprime soddisfazione e disappunto con gesti fuori luogo, in quanto non esistono linee guida di tifo universalmente riconosciute perché amplificate dai mass media come nel calcio, quindi il tutto è molto più interessante sia dal punto di vista antropologico che da quelli della geografia umana e della psicologia sociale. Poi solo prima e durante le partite ricche di tensione come queste si possono ascoltare musiche tratte dall’immaginario techno delle trascorse stagioni, cose imbarazzanti come I’m Blue Da Ba Dee Da Ba Daa oppure I’ve got a feeling, con le giocatrici che prima di entrare in campo le vedi che muovono le gambe a tempo come se quella fosse musica che dà davvero la carica. Qui in provincia poi è ancora pieno di persone che girano con i colletti delle polo tirati su e non si capisce il motivo considerando che la temperatura nel palazzetto è da clima equatoriale ma forse è per interporre una barriera alle già numerose zanzare che, al chiuso, sono ancora più testarde. Infine, in occasione della terza partita della finale del campionato femminile di volley, la vita mi ha insegnato che in match di questo tipo i biglietti e i posti sono numerati per finta, quindi anche se arrivi con ampio anticipo è meglio sedersi prima e mangiare dopo.

spesso comprarli nuovi è più conveniente che aggiustarli

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La gente non è più rassicurante come una volta. Al lavoro le persone sono sempre meno meticolose ma anche nella sfera privata non scherzano. Indossano minacciosi occhiali a goccia e rimangono impassibili ad attendere le cose imminenti con le braccia conserte senza dare il minimo indizio al prossimo su quale partito siano pronte a votare o se siano vittime di qualche routine, probabilmente a causa delle lenti dal colore inaccessibile. Sono pronto a scommettere che oggi come oggi, se hai le possibilità di spendere, alla fine siano molto più affidabili gli elettrodomestici, un paragone che vi farà sorridere ma con certe marche potete stare tranquilli. Luciano, un amico che voleva avere il meglio della tecnologia, per dare un’idea di quello che aveva speso per la cucina diceva sempre che aveva donato un rene per permettersi dispositivi di tutto rispetto. Poi un dottore gli ha davvero scoperto che uno dei due reni non gli funzionava per una specie di malformazione che si portava dietro dalla nascita, una cosa su cui ci rideva su perché, fortunatamente, non gli aveva mai causato nessuna complicazione. Come Luciano, anche io, investendo un po’ di più di quanto avrei dovuto – e apparentemente senza nessuna implicazione sul mio apparato urinario – ma sfruttando il vantaggioso sistema delle rate a tasso zero, mi sono dotato di elettrodomestici che mi danno molta più affidabilità di certe persone. Intanto lavatrice e lavastoviglie tedesche che si spengono da sole una volta terminato il loro ciclo di lavaggio. Mi accontento di poco, direte voi. Il frigo l’ho scelto invece della stessa marca dei più celebri smartphone perché mi ha colpito, in fase di scelta, un vistoso cartello con le parole più belle che non sono ti amo, come diceva Woody Allen, bensì no frost. Infine, ma questo grazie ai punti delll’Esselunga, ho abbandonato la tradizionale moka per una di quelle caffettiere elettriche con il nome di donna che ti fanno trovare il caffè pronto la mattina all’ora a cui l’hai programmata. Il caffè è davvero buono anche se la caffettiera ha una vergognosa lacuna: purtroppo non si carica di miscela e acqua da sola, e se vi capita di vedere la pubblicità di questo prodotto concorderete con me che per la gente, la stessa che non è più rassicurante come una volta, non è affatto un aspetto così scontato.

due anacoluti al giorno prima dei pasti

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Vede signor Robberto, mi sta dicendo l’impiegata dell’ufficio commerciale al telefono, vede signor Robberto un cliente mi ha detto prima che se vincesse alla lotteria e diventasse miliardario passerebbe il tempo da un buon psicologo a farsi analizzare. Così mi chiedo se sia efficace una terapia d’urto di questo tipo: anziché le due volte alla settimana nei tempi standard per le sedute potersi permettere otto ore di fila al giorno sdraiati sul divanetto dello strizzacervelli di fiducia a raccontargli che la tua è una personalità costruita lungo anni di assimilazioni di comportamenti altrui e che tutte le paure di farsi valere sul prossimo hanno radici ben piantate nelle remote frequentazioni assidue di chi sai tu. Questo senza volerti sostituire al parere autorevole del professionista che paghi profumatamente anche se, avendo vinto alla lotteria, le possibilità di certo non ti mancano. Ora così vorrei chiedere alla commerciale della compagnia telefonica a cui sono abbonato se invece, scegliendo di non lavorare, preferirebbe, come me, disegnare una cartina geografica delle professioni i cui confini fossero facilmente desumibili a partire dal modo in cui gli operatori dei call center pronunciano il mio nome allo stesso modo, signor Robberto con due b.

Le chiederei anche se da quella parte della linea che a me, soprattutto sul traffico dati, ultimamente fa le bizze, se da quella parte si vedono tutte le mie abitudini di navigazione in Internet. Le ricerche che faccio su Google, le persone che spio su Facebook, i film e la musica che scarico, persino i suggerimenti sintattici su tutti gli anacoluti di cui cerco la correttezza e che mi hanno reso così celebre presso i miei venticinque lettori. Perché stiamo a disquisire su quanto siano lecite le intercettazioni telefoniche quando basterebbe capire dove arriva il potere altrui di scavare a fondo nella cronologia e nella cache di ogni dispositivo connesso a Internet per tirare fuori le peggio cose di ogni persona per bene come me e far fruttare il tutto come elemento di scambio con qualcosa. Di ricatto, insomma.

Vede signor Robberto, potrebbe dirmi l’impiegata commerciale, vede signor Robberto se lei si azzarda a pubblicare un post in cui si burla del modo in cui noi precari del sud che troviamo solo impiego nei call center pronunciamo arbitrariamente le consonanti doppie potrei divulgare tutte le volte in cui si è avvalso dei siti dedicati alla lingua italiana per avere la certezza che gli anacoluti di cui si vanta tanto non rientrino nella casistica degli errori grammaticali, lei signor Robberto che sbandiera con così tanta presunzione la sua posizione di influencer filosofo intellettuale di sinistra. Bene. Sappiate allora che non chiedo molto oltre a una connettività wi-fi funzionante che mi consenta di non dover usare i dispositivi domestici a singhiozzo e alla certezza che l’abuso dell’anacoluto nella mia prosa dilettantistica non sia un crimine, che insomma oltre a essere una brutta figura retorica non sia anche una brutta figura tout court.

la domenica del correre

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Dal momento che tutti, cani e porci e blogger e un mix di tutte queste categorie me compreso, diamo consigli sulla qualunque tanto si sa che siti di questo tipo non sono una testata giornalistica e bla bla bla, in questa piccola rubrica dei giorni festivi senza pretese che inauguriamo proprio oggi pensavo di condividere la mia opinione su un altro dei tanti argomenti sui quali sono pronto a dire la mia anche se non ho nessun tipo di competenza, tanto meno di autorità, e cioè la corsa.

Se siete tra le centinaia di migliaia di persone che si dedicano al running come me perché è l’unico sport che non necessita di iscrizione a una palestra, di tempi e spazi regolamentati, da praticare non in mezzo a marcantoni tatuati e carampane in mise inadeguate, con il sottofondo musicale che decidi tu, vediamo insieme alcuni aspetti del podismo meno che dilettantistico, quello fatto a cazzo di cui, sono certo, quando saremo vecchi pagheremo le conseguenze e conti salati con ortopedici e fisiatri ma, nel frattempo, ci consente di mantenere un regime alimentare tutto sommato privo di sacrifici.

1. Intanto spiegatemi come riuscite a conciliare la stabilità del vostro matrimonio con la costante presenza di roba da corsa stesa ad asciugare, a meno che non abbiate un locale dedicato in cui transitate solo per questo. Noi che occupiamo un appartamento da persone normali, di quelli che hanno lo stendibiancheria sospeso sulla vasca, la presenza di pantaloncini e magliette fluorescenti è all’ordine del giorno e influisce pesantemente sull’umore famigliare.

2. Checché se ne dica, sarà bella la campagna e il verde ma sono pronto a scommettere che è molto meglio correre in tangenziale nell’ora di punta piuttosto che al limitare dei campi concimati chimicamente di fresco. Un’esperienza che ti toglie il fiato. Provare per credere.

3. Leggevo sulla pagina Facebook di Malapuella e precisamente qui che riuscire a equilibrare le tre variabili della corsa – quanto veloce corri, per quanto tempo lo fai a sessione e quante volte riesci a farlo – è un problema comune. Chiaro che spararsi una maratona completa da record mondiale ogni giorno è una pratica da supereroi, bisogna però fare i conti con i propri limiti fisici e il tempo a disposizione. Il mio segreto? Ho trasformato le variabili in costanti per una media al ribasso che però mi soddisfa pienamente. Corro una distanza dai 10 ai 18 km (a seconda di come mi sento) impiegandoci da un’ora a un’ora e quaranta circa e lo faccio dalle due volte in inverno alle tre-quattro nella bella stagione fino a quasi tutti i giorni quando sono in ferie. Ma se non riesco a mantenere tutto ciò non è la fine del mondo.

4. Le costanti del punto 3 si basano principalmente su quella che io chiamo “dote tempo per running”: il bello della corsa è che la puoi praticare quando vuoi, ma famiglia, lavoro e esigenze varie non sempre lasciano il tempo necessario per lasciar sfogare il Forrest Gump che c’è in te. A me piace correre la mattina presto e a digiuno, quando provo a farlo di sera rendo sensibilmente di meno.

5. Quando rientro da una corsa, l’ascensore pronto al piano terra è una tentazione a cui non so resistere

6. C’è chi corre in compagnia, io preferisco farlo da solo – così tengo il passo che mi riesce – e con la musica in cuffia. Al terzo lettore mp3 squagliato dai litri di sudore che il mio corpo emette (vedi il punto 7) ho ripiegato sullo smartphone tutto incellofanato nella pellicola trasparente cadendo poi così nella schiavitù da app per la corsa (vedi il punto 8). Il problema è che uno dovrebbe avere sempre tutto lo scibile musicale umano e extraterrestre per poter soddisfare appieno l’annoso problema dell’accompagnamento giusto al momento giusto. Dicono che Spotify premium sia la soluzione. Al momento un buon compromesso sono le schede di memoria da 32 o 64 giga, lì un po’ di roba ci sta. Se riesco mi preparo la playlist la sera prima, ma non ripetersi nella selezione non è semplice. Ci sono le volte in cui si sente meno la fatica se si ascolta musica mai sentita prima, altre volte in cui invece solo con brani triti e ritriti è possibile astrarsi totalmente dal proprio corpo e coprire le distanze senza nemmeno accorgersene. La radio è a vostro rischio e pericolo: è bello quando qualcuno sceglie per te, ma trovare quel qualcuno con i tuoi gusti è un’impresa.

7. Correre al freddo e al gelo e tutto intabarrato è molto più proficuo che correre al caldo, soprattutto se come me sudate come dei maiali.

8. Scoprire grazie a Endomondo che un percorso di un tot di km calcolato con gmaps-pedometer non è di quel tot di km dopo anni in cui lo si usa come tracciato di allenamento è altamente demotivante. Alla fine ho ripiegato sulla compagnia dello smartcoso anche per l’uso delle app. Mi faccio i miei percorsi, posso cambiare tragitto come e quando voglio tanto ho sempre una guida sulla distanza compiuta, posso inoltrarmi in sentieri sconosciuti tanto con il navigatore poi ritrovo la strada maestra e tante altre cose belle tranne quella al punto 9.

9. Non sono un nerd che poi analizza le prestazioni di ogni singolo km , il punto in cui ho dato il massimo e quello più da lumaca il tutto rilevato grazie a Endomondo. In genere di questi dati me ne fotto, corro perché mi piace e mi permette di sfogare le 40 e passa ore settimanali di immobilità davanti a cosi come questo.

10. Le scarpe sono tutto, ce ne sono adatte a ogni tipo di piede e per tutte le tasche. Su questo tema è bene consultare pareri più esperti del mio, e anzi se avete qualche negoziante di fiducia fatemi sapere. Io le cambio più o meno una volta all’anno, cerco di variare le marche perché mi piace cambiare un po’. Ho iniziato cone le New Balance per passare alle Asics e ora sto provando le Brooks, tutti modelli di un paio di anni indietro perché si trovano nelle grandi catene di articoli sportivi come Longoni quasi a metà prezzo (il mio budget è di massimo 80/90 euro, per le mie prestazioni sportive vanno fin troppo bene).

Ecco, alla fine ho messo insieme 10 punti e mi viene voglia di chiamare questo post con un titolo tipo “i 10 suggerimenti più utili per chi corre a cazzo” ma preferisco lasciare questo, perché è domenica e anzi, ora vi saluto e vado a correre.

potrei essere tuo padre

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Questa cosa per cui ci sono persone adulte che hanno venti o venticinque anni in meno di me non finirà mai di stupirmi ma mi dicono che è bene abituarcisi perché si tratta di una tendenza e una casistica destinata a crescere. Com’è possibile essere nati nel 1986 magari mentre sostenevo l’orale dell’esame di maturità con la mia cresta post punk e i miei scarponi da pogo? E davvero mentre Cobain faceva quello che ha fatto c’era un’intera generazione di bimbi che frequentava le scuole elementari per cui oggi, a trent’anni suonati, il grunge fa parte della loro esperienza acquisita di rimando grazie alle fonti dirette e indirette? Questa è bella. Sono sempre più numerose le avvisaglie che collocano quelli con la data di nascita contigua alla mia e, ovviamente il sottoscritto, tra i più vecchi nelle occasioni sociali. Se poi ci mettete il fatto che fare i figli tardi non giova in questo processo – i genitori dei compagni di classe o di squadra di mia figlia quando sono coetanei di mia moglie e miei hanno già figli maggiori ventenni – si chiude il cerchio e ci si proietta lungo una strada di confronti con il prossimo piuttosto difficili. Se avete meno di trentacinque anni non venite a dirmi che con quelli come noi vi trovate a vostro agio perché non ci credo. In realtà dovrebbe funzionare diversamente. Ogni generazione dovrebbe distare da quella successiva di almeno mezzo secolo, giusto il tempo per consentire ai giovani di accudire i vecchi decrepiti e accompagnarli degnamente all’aldilà non prima di essersi fatti trasferire tutto lo scibile umano. Un sistema che servirebbe per ridurre drasticamente la popolazione e consentirebbe una migliore gestione delle risorse nel pianeta. Quindi noi quasi cinquantenni con figli neonati i quali aspetteranno altrettanto prima di riprodursi nella nuova generazione. Ciò consentirebbe di evitare inutili frammentazioni socio-culturali, pericolose mescolanze tra grandi e giovani e metterebbe un po’ di ordine nelle cose.

così per sport

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C’è solo un’esperienza più totalizzante dello scoutismo per i ragazzi ed è lo sport dilettantistico perché poi alla fine della fiera tanto dilettantistico non è. Le società devono attirare e saper mantenere i propri sponsor fatte le dovute proporzioni tanto quanto le squadre di Champions League, gli sponsor restano se gli dà visibilità, si dà visibilità agli sponsor facendo tante partite, si fanno tante partite se si superano le varie fasi dei campionati, si va avanti se si hanno atleti forti, gli atleti ci mettono del loro con l’attitudine allo sport in questione ma poi ci vogliono i direttori tecnici in gamba che al mercato mio padre comprò. C’è quindi questo vortice di attività che avviluppa le famiglie, con i genitori la cui competitività come potete immaginare è direttamente proporzionale all’età dei figli, il dilettantismo e l’importante che i ragazzi si divertano finisce al netto dei risultati. Poi ci sono i bilanci delle società, la disponibilità dei genitori a dare una mano gratuitamente – ci mancherebbe -, le primedonne e i gruppi che si creano che è anche bello. In questo tourbillon avete notato che la parola “figli” è davvero marginale il che è un peccato. D’altronde nello sport convergono diverse aspettative del genere umano, prima su tutte l’istinto di arrivare primo su altri, e chi – come me – è stato una schiappa può mettercela tutta e aspirare per mano della propria progenie. Quello che spaventa è che, da una certa età in poi, subentra una sorta di alienazione che è quella a cui mi riferivo prima. Mi sarebbe piaciuto che mia figlia si iscrivesse agli scout – non chiedetemi perché, probabilmente è una specie di perversione che mi porto dietro da sempre – ma poi mia è stato consigliato di no perché diventa troppo impegnativo. Tutti i fine settimana, i raduni, gli incontri, la messa, la route, il bivacco. Ora, con il volley, è ancora peggio. Tre allenamenti più due partite in due campionati diversi sabato e domenica, il che significa per i ragazzi rinunciare agli amici degli altri ambienti che frequentano. I compagni di classe che vanno a spasso nel tempo libero mentre tu sei intenta a schiacciare per arrivare prima degli altri a venticinque punti. Che poi, diciamocelo chiaramente, preferisco che mia figlia stia in una palestra piuttosto che al parchetto con i coetanei che si riempiono di parolacce e ripetono strofe di discutibili rapper italiani. E sono certo che lo sport faccia bene. Ma a farne troppo e a quell’età lì delle medie è corretto? Fatto sta che mia figlia, che ha sempre manifestato piccoli episodi di (non so se sia pertinente la definizione in questo caso) sonnambulismo, l’altra notte, coricatasi dopo un allenamento dalle 20:30 alle 22:30, a un certo punto è saltata giù dal letto per mettersi in posizione difensiva di fronte alla finestra, come in partita si fa davanti alla rete in attesa della battuta, con le mani sollevate sopra la testa. Resta il dubbio di sapere chi ha vinto, poi, quella partita nei suoi sogni.

c’è un sito che non è mai offline

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La mente è un luogo arcisicuro per dire le cose, dimostrare le proprie opinioni, sentirsi dare ragione, volendo anche vivere vite parallele a qualunque realtà reale o virtuale. Nella mente nessuno osa porre obiezioni ma malgrado ciò talvolta non è facile giungere a conclusioni. Se non sei determinato finisce che anche lassù inizi a trovare qualcuno che ti mette i bastoni tra le ruote e che a furia di sinapsi ti conduce lontano con l’illusione dell’incommensurabile che invece è una bella fregatura, ci potete scommettere. Sempre a spostare sti cazzo di confini del pensiero più in là e poi chi è che ha il biglietto per arrivarci o le gambe o mezzi propri, perché finisce che ti ritrovi spompato con il fiatone alla porta della percezione e invece – sorpresa – dietro non c’è altro che il locale contatore, e c’è da ritenersi fortunati che con il libero mercato dell’energia ogni due per tre c’è qualcuno che va a dare un occhiata per sincerarsi che i neofiti imprenditori dell’elettricità low cost non abbiamo combinato qualche casino. Come ogni condominio che si rispetti, anche nella mente c’è il pensionato tuttofare che ti riporta nelle tue stanze e, anche se con modi sbrigativi, bene o male è in grado di riparare qualsiasi cosa. Ma a saper stare al proprio posto la mente è un luogo davvero piacevole per le discussioni, si trovano anche quelli che chiedono consigli e poi fanno quello che gli dici. Leggono persino le cose che scrivi e, volendo, fanno pure sesso con te. Si fanno gli incontri giusti, succedono cose già accadute con insperati capovolgimenti di fronte e finali che nessuno avrebbe mai detto. Si può persino pensare qualunque cosa e soprattutto chiunque in qualunque modo e no, non si lascia traccia da nessuna parte, non ci sono cookie o sistemi che tracciano il navigare della nostra immaginazione, nessuno saprà mai chi ha utilizzato anche impropriamente e senza alcun diritto la persona altrui. Non so voi, io ci sto davvero bene, non ho mai trovato un ambiente più confortevole e anzi ora, e spero di non offendere nessuno, faccio log-out di qui e mi connetto di là come si fa con le reti private virtuali. Un collegamento, purtroppo, esclude l’altro.