sono muffe e non ho mai capito perché

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Una volta che pioveva così, no anzi pioveva proprio a dirotto ma eravamo più avanti nell’estate, era agosto inoltrato e forse anzi quasi settembre perché era già stagione da funghi, altrimenti mio padre non avrebbe avuto quell’idea. Mi ha detto vieni, mettiti gli stivali di gomma, la mantella da pioggia, prendi l’ombrello e vieni che andiamo a cercare le schicamelle. Le schicamelle, che poi si pronuncia sckikamelle con la sc dolce di sci, è il termine dialettale per chiamare le mazze di tamburo. Così siamo usciti nella pioggia, e pioveva forte, lui davanti e io dietro a lui, ciascuno con gli stivali di gomma verde e il suo ombrello e la mantella da pioggia e un cavagno in mano. Il cavagno è, sempre in dialetto, il cestino che si usa per portare i funghi raccolti. Io ero dubbioso sugli esiti di quella battuta di ricerca e avevo anche paura ad andare nei boschi, avevo letto che in caso di temporale è meglio stare alla larga dagli alberi perché attirano i fulmini e si può anche morire bruciati. Così mi sono tranquillizzato quando ho capito che non andavamo verso l’alto, dove finiva la strada e i pini e i castagni si infittivano, ma ci stavamo dirigendo a valle passando però attraverso i prati. Siamo scesi nei campi che io vedevo sempre dalla collina ma non ero mai andato lì e credevo che nemmeno ci si potesse camminare vicino, i contadini sono molto gelosi delle loro proprietà. E a dir la verità non capivo il perché di quella sortita, non si va a cercare funghi in posti così. Ma quei prati li abbiamo superati, c’era un sentiero che da casa nostra non si vedeva e che ti consentiva di attraversarli, e siamo arrivati a un filare di alberi le cui radici erano coperte dall’erba molto alta, quei punti in cui è difficile fare fieno perché la trebbiatrice non ci arriva e poi gli uomini con il falcetto si dimenticano di completare l’opera. Pochi metri oltre gli alberi c’era un canale che raccoglieva l’acqua necessaria all’irrigazione dei campi successivi. E lì in mezzo mio padre mi ha fatto cenno con la mano con cui reggeva il cavagno. Indossava una mantella di una lunghezza spropositata, e pensare che già lui era molto alto, e visto così sembrava un pipistrello. Abbiamo riempito i nostri contenitori di schicamelle cercando di non bagnarci, tenendo sempre l’ombrello aperto e cercando di non farci sgocciolare la pioggia addosso a vicenda. I funghi non appartengono ai proprietari del terreno su cui crescono, probabilmente è così e io non l’ho mai chiesto. Siamo rientrati poi a casa, la stufa a legna era accesa come sempre, e quei pochi prataioli che avevamo preso insieme a quegli altri esemplari più nobili li abbiamo fatti abbrustolire lì sopra e mangiati così.

i’m not your steppin’ stone

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Di certo i Sex Pistols devono essersi divertiti a rifare un pezzo da così (la versione dei Monkees)

a così:

la dismissione

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Qui non c’è un impianto industriale da rimuovere pezzo per pezzo e da portare in oriente, c’è solo un capitale intellettuale e professionale che fattori diversi stanno smantellando ma che non verrà ricostruito altrove con le stesse macchine, bensì con apparati e competenze anche meno convenienti di quelle che si trovavano qui. Vaglielo spiegare tu a ‘sti colossi delle multinazionali che mandare il loro personale in Italia dalla loro sede centrale per fare un lavoro da tradurre poi in inglese per poi ritradurlo in italiano costa molto di più che farlo direttamente in italiano con un’agenzia esterna che peraltro conosce meglio le tecnologie, i clienti per non dire il territorio e il mercato in cui la multinazionale opera da quindici anni. Così mentre mi sforzo di non mettere il mio valore aggiunto in un lavoro fatto da altri e che fino a l’anno scorso svolgevo io con un livello di professionalità e di qualità che vi sfido a eguagliare, ripenso a Vincenzo Buonocore, l’operaio che rilegge la sua vita nei brandelli di macchinari che va smontando per l’acquirente cinese nel libro di Ermanno Rea. Pezzo per pezzo, nel mio caso riga per riga, una vita di sforzi per limitare le ripetizioni e refusi nel racconto del lavoro degli altri, pensando che presto sarà un lavoro di altri anche questo.

tempo variabile

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Rientrando in bici, consumato un gelato dopo cena tra la brezza della sera di un’estate tutto sommato mite e la solita ricognizione di zanzare, ho notato mia figlia osservare con interesse i gruppetti di adolescenti in libera uscita. Le ragazze con gli shorts di jeans per mano ai ragazzini e quel modo totalizzante di vivere la compagnia e il fascino dei pari che si ha solo a quell’età, che è una cosa che terrorizza ogni genitore, il sottoscritto in primis. E quasi a volerselo tirare contro, sono stato freddato all’istante con un commento inequivocabile, “non vedo l’ora di avere sedici anni”. E quando le ho chiesto perché, che cosa la attirasse del doppio della sua età attuale, mi ha risposto adducendo esempi che possono essere ricondotti a una idealizzazione dell’indipendenza e del desiderio di vivere esperienze al di fuori della famiglia, inclusa la sfera sentimentale. Ho retto il duro colpo, peraltro inferto come se fosse naturale – che poi è naturale – che una bambina veda con ammirazione gli adolescenti e aspiri a crescere. Così mi sono speso in un velato suggerimento nel considerare tutti i vantaggi dell’essere più piccoli, spiegandole che anelare ad attraversare in fretta periodi della propria vita per raggiungerne altri è un peccato, viste le peculiarità e le gioie stesse che ogni fase della crescita ci riserva. Senza contare che l’infanzia è una dei migliori, e non solo perché si ha tutta la vita davanti. Ma come per incanto è accaduto il capovolgimento di fronte, il vero indice rivelatore di un’età di mezzo e di preparazione. Una volta a casa, concessa la possibilità di seguire un cartone insieme prima di coricarci, mia figlia ha scelto un episodio dei Barbapapà, personaggi e storie che le piacevano in età prescolastica. Non vi nascondo il piacere egoistico che ho provato nel ritrovare, di fronte a quella surreale e fantasiosa famiglia di trasformisti, la mia bambina di otto anni e il divertimento allo stato puro. Ma giuro che non l’ho dato a vedere.

quello che reggo sono solo le parole

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Ai tempi d’oro dei cantautori a me i cantautori non piacevano granché. Il motivo del mio disinteresse era la scarsa cura degli arrangiamenti musicali delle loro canzoni, secondo il mio metro e i miei ascolti, naturalmente. Penso solo a quel modo di musicare testi irripetibili, addirittura perfetti tanto era la loro intelligenza e profondità, senza conferire altrettanta originalità alla componente strumentale. Ora senza addurre esempi di pezzi chitarra e voce, la classica ballad a impostazione dylaniana, in cui l’accompagnamento è volutamente scarno in virtù del processo compositivo stesso, in tutta l’abbondanza di riascolti dell’opera di Lucio Dalla che si è succeduta nell’anno della sua scomparsa, e soprattutto il suo periodo d’oro ovvero gli anni 70, mi sono accorto di riscontrare la stessa impressione di allora, pur mediata da una maturità e dall’intelligenza di collocare filologicamente il brano nel suo contesto storico quindi culturale e quindi estetico. Che poi è un po’ il peccato originale della musica italiana stessa, quello dell’essere imbrigliato da un linguaggio poco flessibile da adattarsi ad altri generi al di fuori di quello specifico della canzone d’autore. Ora è chiaro che certe speculazioni si possono fare solo a posteriori, ma non è difficile immaginarsi come alcune canzoni sarebbero riuscite se date in mano a uno come Gianni Maroccolo, giusto per fare un esempio impossibile se non altro da un punto di vista anagrafico, o a musicisti con altrettanto background e visione meno provinciale. D’altronde i turnisti e i virtuosi che popolavano l’entourage dei cantautori erano gli stessi che poi magari dovevano esercitare il loro mestiere con autori e interpreti meno nobili, quindi essere pronti a tirare fuori il meglio anche in registrazioni meno raffinate. Sempre per fare un esempio, musicisti del calibro dei componenti della PFM, che hanno arrangiato con un gusto sopraffino l’opera di De Andrè, hanno accompagnato anche molti dei peggiori prodotti musicali del periodo. E la PFM è uno dei rari casi di compresenza di gusto e tecnica, di esperienza internazionale ma di sapore italiano. Altrove, dare un brano nudo e crudo in mano a mestieranti scafati e supertecnici generava rivestimenti sonori sicuramente tagliati su misura ma tali da omogeneizzare qualunque canzone nel calderone della sovraproduzione artistica, condannandola all’oblio nei secoli dei secoli. Affidare la responsabilità di colorare una linea melodica a virtuosi con le mani e la testa zeppe di ascolti unicamente monodirezionali, il jazz o la fusion tanto per citare due degli elementi che in ambito pop nemmeno dovrebbero essere ripresi nei booklet dei cd, è stato enormemente riduttivo. Nel 1979, anno di uscita di  Lucio Dalla che possiamo considerare un album perfetto anche solo considerando la tracklist, nel resto d’Europa la musica si muoveva in tutt’altra direzione e se è difficile immaginarci un brano come “Anna e Marco” con la produzione di Brian Eno è solo perché il nostro imprinting sonoro è lo stesso che hanno i componenti degli Stadio che hanno registrato quel brano. Se posso generalizzare con una battuta, metti un pezzo rock o anche funky in mano a gente che suona troppo bene e il rock e il funky miracolosamente spariscono nel nulla. E a supporto di questa tesi, anzi del suo contrario, ascoltate la versione in studio di “Musica ribelle” di Finardi, che è una delle rare eccezioni di quanto ho scritto sopra in cui addirittura la batteria emerge a un volume straordinariamente alto considerando anno e nazione di uscita, il tutto registrato da alcuni membri degli Area in aggiunta ad altri musicisti italiani “anomali” come Alberto Camerini.

compagni di viaggio

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Al proprietario di un telefono del genere non dovrebbe essere consentito di provare in sequenza e in “profilo normale”, quindi a volume medio-alto, tutte le suonerie di cui il dispositivo è dotato, vero? E se te lo ritrovi a fianco nel tragitto del ritorno mentre stai valutando se sia meglio proseguire con la lettura o schiacciare un pisolino per una manciata di stazioni, e al terzo o quarto squillo realizzi che non sta ricevendo telefonate ma si sta solo trastullando con un passatempo ormai superato da almeno quindici anni, a nulla vale fargli notare che no, non è un comportamento corretto. Se tutti facessero come lui, che babele di suonerie sarebbe questa carrozza che già si distingue dal resto dell’ambiente per la temperatura interna vicina allo zero. Spero che tu abbia trovato la musichetta più consona alla tua personalità, una scelta tra “beep beep” o “bip-bi-bi-bip-bi-bi-bip” o l’immancabile fuga di Bach o il volo del calabrone. Mi spiace aver perso il finale della tua performance, sono certo che chi mi ha sostituito al tuo fianco abbia apprezzato quanto me.

la società liquida

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Ora, Bauman può pensarla come vuole e chi sono io per affermare il contrario. Dico solo che in presenza di un certo tipo di contenuti fluidi occorre utilizzare contenitori adeguati. Perché poi capita di trovarsi in prossimità del bifolco di turno che si presenta all’accettazione del laboratorio analisi con una bottiglia piena fino all’orlo di un inequivocabile liquido giallognolo. Avete letto bene: una di quelle bottiglie con il tappo a molla, lo stesso tipo che mia nonna utilizzava per preparare l’idrolitina meglio nota nel lessico famigliare come acqua di Vichy. Ma tornando in fila nel nostro ambulatorio, io ho il numero 21 quindi ho giusto il tempo per raccogliere queste impressioni, questo tizio è palesemente sorpreso del fatto che l’impiegata dietro lo sportello con tanto di protezione profilattica in plexiglass lo stia riprendendo. Metta via quel coso, gli dice. Ci vogliono i recipienti asettici e soprattutto non occorre raccogliere così tanta urina. Come ha fatto a riempire una bottiglia, gli chiede. Ho bevuto tutto ieri sera e stanotte mi sono alzato più volte, il bifolco rassicura così l’addetta al pagamento del ticket dall’altra parte e se stesso di qui, tra il pubblico ludibrio che si dipana oltre la linea gialla, e rinfodera i suoi effluvi nella borsa blu della spesa, un modello di sacchetto peraltro a oggi fuorilegge.

Ma non è tutto, perché mentre accade tutto questo poco più in là ecco invece uno stolto che, volendo estrarre il libro dalla borsa per ingannare il tempo di attesa, si accorge che malgrado abbia utilizzato un contenitore omologato e conforme a differenza del bifolco che stava compatendo, questo non ha retto il percorso in bicicletta, o molto più facilmente lo stolto – che guarda caso ha anch’egli il numero 21 proprio come me, che combinazione – non ha assicurato bene la chiusura ermetica, pubblicizzata anche sulla confezione ora ridotta a una fase intermedia di cartapesta. Stamane non c’è proprio di che annoiarsi, in coda al laboratorio analisi. E per fortuna ne è rimasta un po’ dentro, pensa tra sé lo stolto maledicendo se stesso e cercando la commiserazione di chi è immerso nelle proprie, di preoccupazioni, chissà se più urgenti o meno. Dettagli impossibili da sapersi, ognuno occulta come può l’impegnativa del medico per tutelare al meglio la propria privacy, come se la missione dell’umanità fosse quella di spiare i valori del colesterolo altrui o risalire a quale disturbo possa soffrire qualcuno in base alla presenza nella lista dei test da effettuare di transaminasi o billirubina. A malapena siamo in grado di raccogliere la nostra pipì. E per scrupolo, non conoscendo la quantità necessaria per il corretto svolgimento dell’esame, il nostro numero 21, giunto il suo momento, mette al corrente l’infermiera dell’incidente di percorso per rompere il ghiaccio mentre lei con fare esperto cerca di trovare una vena sufficientemente visibile e adatta allo scopo. L’infermiera butta un occhio sul livello del liquido e tranquillizza il paziente con un più che eloquente “ciumbia!”.

la fortezza

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C’è quasi buio e fa caldo ma solo da una parte e io lo so il perché, stiamo salendo e alla nostra destra c’è il muro che ha assorbito i raggi del sole fino a meno di un’ora fa e ora lo caccia fuori tutto. Così abbiamo il vento che tutto sommato è fresco sul viso e questa irradiazione di calore sulla spalla e sulla gamba e sulla guancia destra, così mi hai detto prova ad appoggiare la schiena, prova ad abbandonarti sul muro e a sentire quello che sentiremo anche domani. Ci sono gruppi di turisti che scendono dalla cima così ti prendo per mano e ti spingo di fianco a me, a guardare la gente che torna giù e guarda noi che non sappiamo nemmeno se continueremo su o se ne avremo abbastanza, ma intanto ci sono queste mura roventi che ogni giorno da mille anni a questa parte traggono in inganno pellegrini antichi e moderni, catturano l’estate e la rilasciano di notte a chi si appoggia, come un’illusione. Da sotto si sente uno di quei pezzi che ogni bella stagione vanno per la maggiore e che si ballano qualunque sia l’arrangiamento, ti potrei cantare anche una decina di versioni differenti e soprattutto la più brutta che era pure una pubblicità di qualche cosa, sicuramente telefoni con comici discutibili come testimonial. Ma questa non è male, un po’ jazz e un po’ afro, la cantante può prenderla alta e farsi bella con la sua estensione vocale. Le luci in quel punto sono basse e ora non si vede quasi più nulla, i passanti sono molto abbronzati e non percepiamo nemmeno i lineamenti, per fortuna vestono quasi tutti di bianco, alcuni hanno anche il cappello a tesa larga. Possiamo spostarci ora, andiamo dove c’è un po’ di chiaro, se proseguiamo fino in cima corriamo il rischio di non sentire più nulla, solo la salita nelle gambe e le mani strette per la paura di perdersi.

ed è un peccato perché c’erano tutti i presupposti, ma si sa come vanno le cose

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Erano una coppia di quelle che non avresti definito felice, ma era anche difficile affermare il contrario. Lui era stato tutta la vita un capostazione quando le divise di chi lavorava in ferrovia erano tutte blu e si vede che non si sentiva a proprio agio con altri colori addosso. Oramai in pensione, per lavorare nell’orto o per sistemare tutti i piccoli problemi che una casa in campagna genera ogni giorno – c’è sempre qualcosa da fare – usava una tuta blu di quelle da meccanico. Per andare in paese la mattina presto a scegliere il pesce migliore per pranzo o per passare dal ferramenta a comprare i tasselli o il filo o i chiodi si metteva pantaloni, giubbotto e cappello con la visiera blu. Per questo quelli che lo incontravano lo salutavano quasi militarmente, buongiorno signor capostazione, anche se non lo era più da anni.

Ma il fatto che sorridesse di rado era solo un’impressione. Portava i baffi perché aveva la parte superiore del labbro enorme – le figlie un po’ lo prendevano in giro per questo – e finiva che i baffoni neri gli coprivano quasi tutta la bocca e non sapevi che smorfie facesse, nemmeno quando parlava si vedeva qualcosa muoversi, quindi era difficile percepire il suo stato d’animo. Aveva anche delle mani smisurate, era di corporatura grande ma la mani quelle erano davvero gigantesche, che tutti si chiedevano cosa ci facesse con quelle mani lì. Malgrado l’ingombro, era in grado di eseguire lavoretti di fino e di precisione, per esempio lavorare le esche prima di andare a pesca o infilare il filo nella cruna dell’ago al primo colpo. Ma con la moglie parlava poco, e peccato perché lei era davvero una chiacchierona.

Lei aveva quell’espressione stampata sul viso di chi sembra che ti sta prendendo in giro, quella con la bocca piegata solo da un lato, farei un disegno se potessi per farvi capire meglio, parlava solo con metà labbra lasciando l’altra metà ferma come se fosse stata colpita da un’emiparesi. Per fortuna non era il suo caso, perché la sorte già era stata poco bonaria con lei. Per colpa di un tumore le era stato asportato un seno, cosa che lei raccontava con la soddisfazione ampiamente comprensibile di chi ha vinto una battaglia o di chi ha ucciso un animale feroce durante una battuta di caccia. E si lamentava solo di due cose. Ce l’aveva con la sfortuna, e per descrivere la propria condizione in dialetto diceva una frase piuttosto popolare, a proposito di falli che vagano nell’aria e vanno a colpire bersagli poco nobili anche a distanza di centinaia di chilometri, il cui significato è tutto sommato condivisibile. E ce l’aveva un po’ con le figlie che, già grandi, non le avevano fino ad allora dato la soddisfazione sperata, ciò che una madre a più di sessant’anni vorrebbe per essere un po’ meno mamma e diventare un po’ di più nonna.

Per questo vedeva di buon occhio i potenziali generi che si alternavano al fianco delle due figlie e ogni volta sperava che fosse quella decisiva. Non so il suo vero nome perché tutti la chiamavano Lilli. Io la conoscevo perché faceva le pulizie nell’appartamento vicino al mio. Una mattina, al bar sotto casa l’avevo vista particolarmente di buon umore e in cambio di un caffè l’avevo convinta a raccontarmi il motivo di tanta serenità mattutina, malgrado quello che si apprestava a fare per le ore successive, voglio dire passare in rassegna la biancheria zozza di uno scapolo non è il massimo della vita. Il fidanzato della figlia minore, per il compleanno della ragazza che avevano celebrato a cena tutti insieme la sera prima, le aveva regalato un set completo per dipingere. I colori a olio, la tavolozza, i pennelli e persino il reggi tela da pittore. Quando la figlia aveva strappato la carta dalla gioia aveva gettato le braccia al collo del suo ragazzo e mentre si stringevano e si baciavano la Lilli si era addirittura messa a piangere perché aveva pensato che quei due si volevano davvero bene.

come si intitola quel pezzo di quel gruppo che incomincia con quel riff di sintetizzatore

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A una certa età la maggior parte delle discussioni sono introdotte da domande di questo tipo, non si fornisce all’interlocutore nessun indizio perché nella propria memoria c’è il vuoto e si pretende dagli altri una risposta immediata come se fosse semplice cercare tra i file in cantina della nostra mente. Cose come “hai visto quel film di quel regista con quell’attore” o “hai letto quel libro di quello scrittore che aveva fatto anche la sceneggiatura di quell’altro film che aveva la colonna sonora di quel gruppo” sono all’ordine del giorno ed è per questo che invito voi lettori delle giovani generazioni a non avercela con noi persone di mezza età che a fatica siamo in grado di affermare con cosa abbiamo fatto colazione questa mattina. Questo per dire che erano settimane che avevo in testa un riff di sintetizzatore che chissà come mi era venuto in mente e non riuscivo a trovare nessuna collocazione. Lo cantavo agli altri ma nulla, addirittura uno sbarbatello era certo si trattasse degli Europe, ma ti sembra che uno come me possa avere una eco di un pezzo di quei tamarri lì in testa. Non avete idea di quanto abbia sofferto. Poi giusto questo weekend con gli ennemila canali video di Sky a disposizione dei miei genitori, che vi ricordo poi passano il tempo su Tele Padre Pio o sui programmi di esibizioni delle orchestre di liscio piemontesi, per puro caso si è manifestato questo pezzo e così finalmente la sinapsi si è accesa. Roba del 1978 che non ricordo di aver mai più ascoltato da allora, da quando cioè canticchiavo la chitarra elettrica facendo versi di distorsione e mimando con la mano sulla borchia della cintura dei jeans a ritmo, ma che mi aveva colpito proprio per la parte iniziale di tastiere che, a parte essere ripresa a metà pezzo, non c’entra nulla con il resto del brano. Così, direttamente dalle mie elucubrazioni sonore, ecco a voi gli Sweet con “Love is like oxygen”.